lunedì 25 maggio 2020

Come il Coronavirus impatterá le supply chain di tutto il mondo

Come ho giá detto in altri post, non sono un complottista. Un conto é organizzare un attentato, un altro é organizzare un new world order mettendo d'accordo centinaia di uomini potenti, alcuni che cambiano per effetto di nuove elezioni, che hanno interessi spesso discordanti, per ANNI e ANNI.

No, credo personalmente che sciatteria, impreparazione ed egoismo a breve termine siano ragioni piú che sufficienti per spiegare come mai il mondo oggi sia cosí disfunzionale da averci fatto precipitare in un nuovo scenario da Guerra Fredda.

Uno degli architravi della globalizzazione é il supply chain, cioé la rete di approvvigionamento. Se produci le banane in Ecuador dove non costano quasi niente, ma i costi di trasporto sono altissimi, non puoi vendere le banane nel mercato di Den Haag in Olanda a prezzi concorrenziali.

L'attuale network di Supply Chain é di una complessitá spaventosa.
E pensare che basta qualche sparata di Trump che dice che la globalizzazione é morta per spostare indietro le lancette della storia é molto naif.

L'invenzione del container, storicamente parlando, é stata l'innovazione disruptive che ha consentito all'attuale sistema di smistamento delle merci di essere così dannatamente cheap che di fatto il costo del trasporto delle merci, anche quando queste sono prodotte a migliaia di km di distanza, diventa quasi trascurabile rispetto al prezzo del prodotto finale. Un paio di scarpe vendute a 100 euro hanno un costo di trasporto dal Vietnam nell'ordine di qualche decina di centesimi di euro. Questo giusto per mettere i numeri in prospettiva.

Il Coronavirus ha messo nero su bianco un problema: dipendiamo enormemente dalla Cina. Per mascherine, ventilatori, viti, computer, telefonini, schede elettroniche. Tutto.

Ma questa é una constatazione piuttosto banale. Il salto di qualitá di una analisi di questo tipo sarebbe produrre una stima quantitativa (in ingegneria la chiamiamo sensitivity analysis) che consenta di avere una idea di cosa succederebbe se, che so, il 20% della produzione industriale tornasse negli USA.

E'un compito impossibile da portare avanti senza un esame complesso di tantissime variabili: industriali, economiche, finanziarie, financo sociali.

Mi sono imbattuto in un paper piuttosto interessante, a questo indirizzo. Il paper discute l'impatto del coronavirus sulle catene di approvvigionamento nel mondo.
Lo studio parte da un assunto a mio avviso discutibile, e cioé che:

Il commercio internazionale è stato essenziale per gli sforzi delle nazioni di tutto il mondo per combattere le pandemie. Ad esempio, durante la fase critica delle loro epidemie, le nazioni occidentali sono state in grado di importare milioni di maschere e altri dispositivi di protezione individuale (DPI) dalle nazioni asiatiche che si stavano riprendendo dalle epidemie iniziali e dai blocchi (Bown 2020a, Fiorini et al 2020). La Cina è stata la fonte di circa la metà delle importazioni di DPI statunitensi prima di Covid. Le esportazioni cinesi di DPI verso gli Stati Uniti sono diminuite del 19% (rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso) quando la Cina ha subito la peggiore epidemia, ma con il ritorno dei lavoratori nelle fabbriche a partire da marzo, la Cina ha rapidamente aumentato la produzione e le esportazioni. Alla fine di marzo, stava facendo 12 volte più maschere di quante ne facesse nel 2019 (Bown 2020b). Inoltre, gli acquirenti in Occidente hanno potuto importare da esportatori non tradizionali come Sri Lanka, Tailandia, Repubblica Dominicana, Honduras e Vietnam (Bamber et al 2020).


L'assunto é discutibile in quanto non dice che proprio a causa dell'esternalizzazione pressoché totale della produzione industriale in Cina, i paesi europei e gli USA si sono trovati in mutande quando si é trattato di produrre DPI a casa propria. Semplicemente, non avevano mezzi produttivi né personale tecnico per farlo.

Il paper peró ha il grande pregio di mostrare cifre e tempi. Ed ecco i numeri plasticamente rappresentati su una bella matrice.


Senza entrare troppo nel dettaglio (vi invito a leggere il paper), gli autori qua hanno preso i dati del commercio estero dei vari paesi e li hanno ordinati per bene. I numeri rappresentano la differenza in punti percentuali delle quote di dipendenza totali tra il 2015 e il 2009 per la produzione industriale. Ad esempio, il 3,0 nella riga per il Canada (CAN) e nella colonna per gli USA indica che il Canada è più dipendente dagli input statunitensi di quanto lo fosse nel 2009, con un aumento di 3,0 punti percentuali nella misura della dipendenza totale. Per cui trovate 3.0 evidenziato in rosso chiaro.
Guardiamo alla riga USA (la prima) e incrociamo con la colonna CHN (Cina): in 6 anni gli USA hanno aumentato a loro sfavore di ben 4.5 punti percentuali la loro dipendenza dalla Cina. L'Italia del 3.4%, la Korea del 6.3%...insomma, chi piú chi meno siamo tutti in rosso verso la Cina. che si conferma la grande factory del XXI secolo.
Importare cose tangibili e servizi dalla Cina significa avere un afflusso enorme di capitali cinesi nei paesi importatori. Questi enormi capitali sono investiti nella valuta dei paesi importatori in titoli di stato, azioni, terreni, immobili, fabbriche (investimenti diretti e indiretti).

Cosa significa questo? significa che riavvolgere il nastro e spostare in-shore la produzione industriale sará estremamente complesso e richiederá anni. Ci sono aspetti relativi ai finanziamenti, ai derivati, alla logistica da riprogrammare, alle skills prodotte in numero insufficiente per numero delle universitá occidentali, ai controlli qualitá da spostare, ai terreni e alle industrie da costruire o riconvertire.

Bisogna stare coi piedi per terra: é un discorso molto complesso ed é assolutamente prematuro e sciocco pensare che sia suonata la campana a morto per la globalizzazione. Lasciamo questi slogan ai politici. Per investire e capire, occorre essere cauti. Non solo: Trump ha dichiarato guerra commerciale alla Cina, ma a mio avviso é fuori tempo massimo. Gli USA dovevano pensarci giá negli anni 90. Ormai é tardi, per come la vedo io.



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